Siamo soli perché i social vendono la nostra attenzione

Migliaia di solitudini connesse. Questo è ciò che si trova su ogni profilo social. Perché è così difficile sentirsi parte di un qualcosa? Perché ci appelliamo ai social per condividere emozioni? Sembra che oggi più che mai sia sempre più facile rimanere connessi con profili ignoti che con i propri affetti, tutto ciò è il frutto del web 2.0: non interroghiamo più il web, siamo diventati i suoi prodotti. Se accade qualcosa che ci emoziona durante il corso della giornata la prima cosa da fare non è più interrogarsi su ciò che si sta provando, veicolare l'emozione, analizzarla, interiorizzarla; bensì è prendere lo smartphone, scattare una fotografia o un video e aspettare i likes e le views del proprio pubblico.
Ciò che proveremo sarà solo il risultato di un'immagine che si specchia con l'esterno: in base al feedback ricevuto le nostre emozioni mutano, cerchiamo l'identificazione di una sensazione sul social network perché è l'unico modo che pensiamo possibile per avere un'approvazione, un consenso. Vi è mai capitato di vedere un tramonto ed essere talmente emozionati da dover dire ok, questo devo farlo vedere alla mia community perché sono un privilegiato ad essere qui, davanti questo spettacolo, per ciò merita condivisione e, al tempo stesso, vi è mai capitato di aver cucinato un qualcosa e magari non aver ottenuto il risultato desiderato, tanto da voler evitare a tutti i costi di rendere partecipe il vostro pubblico online? Tutto ciò succede perché siamo portati a creare contenuti che alterino la verità offline e, di fatto, i nostri sentimenti. Oggi sembra che per provare un'emozione positiva si debba per forza condividere, sennò si avrebbe la sensazione di non averla provata davvero, sembrerebbe quasi di goderla a metà.
Le reazioni online amplificano l'emozione creando una verità inesistente in quanto alterata, attraverso la quale riusciamo a sentirci protagonisti di un qualcosa di speciale, che è accaduto proprio a noi o davanti a noi, i like accresceranno sempre di più questa sensazione tanto da farci diventare dipendenti. La reazione chimica che si innesca è la stessa della dipendenza da droga: quando si amplifica una sensazione positiva, entra in gioco la dopamina, un neurotrasmettitore attraverso il quale il nostro organismo ottiene la tanto sperata sensazione di euforia. Ogni qual volta si creerà una situazione simile saremo portati quindi a ricondividere ancora una volta con il pubblico la nostra esperienza in modo tale da sperare di ritrovare la stessa identica sensazione, anzi, trovarne una ancora più intensa. Questa reiterazione provocherà la dipendenza silenziosa. Il problema principale è che in questo modo non ci rendiamo conto che l'attenzione alle nostre sensazioni, a ciò che il nostro corpo prova, viene affievolita sempre di più dall'imperante opinione del social. Cosa prova la mia community? Cosa piace a loro? Cosa devo pubblicare di più?
E tu dove sei?
Yuval Noah Harari, scrive in “21 lezioni per il XXI secolo” che gli uomini sono dotati di corpi e che nel corso dei secoli la tecnologia li ha letteralmente allontanati da questi ultimi. È come se diventassimo molto più attenti verso ciò che viene pubblicato dalle persone che seguiamo sui social che verso le persone che ci stanno vicino. Diventa sempre più difficile, infatti, per le generazioni di oggi, riuscire a comunicare con le persone che hanno intorno. I ragazzi si sentono sempre più soli, annullati, non riescono ad ascoltarsi in quanto completamente frastornati dagli attraenti video su TikTok e dagli infiniti post in bacheca su instagram. Si riuniscono al tavolo di un bar e sono completamente persi nel loro smartphone tanto che non sentono il bisogno di cercare empatia. A loro forse neanche importa cosa sta provando l'amico che è seduto accanto, è molto più importante come racconta di stare nelle stories il loro influencer preferito. È una compravendita di attenzione. I social conquistano la nostra attenzione offrendo contenuti gratuiti e poi la rivendono agli inserzionisti. È questione di marketing, business.
Il lato oscuro della medaglia è che a furia di manipolare la nostra attenzione, fanno perdere il senso del reale. Quante volte avete rifiutato il vostro corpo dopo aver visto in bacheca foto di modelle dal fisico mozzafiato? Ai social network non interessa il fatto che ogni essere umano è dotato di un corpo, a loro interessa solo il suo sguardo, appunto, la sua attenzione, senza badare alle reazioni psicologiche che si innescano. Uno dei problemi fondamentali dei ragazzi di oggi sta proprio nel non riuscire ad ascoltarsi. Non hanno voglia di guardarsi dentro poiché troppo complicato, noioso. Cercano risposte nei personaggi che seguono, proiettando la loro realtà nella vita dei loro idoli, perdendo completamente il contatto con loro stessi. La socialità mette a nudo, scalfisce, perché per entrare nel sociale devi fare i conti con i tuoi io più profondi, invece online è più facile: decidi tu quali contenuti mostrare al tuo pubblico, decidi tu quanto investire. Nelle relazioni interpersonali non succede così: per creare un contatto bisogna aprirsi, analizzare i propri punti deboli, capire quelli dell'altro. Bisogna scavarsi dentro. L'incapacità deriva dall'allontanamento dal corpo stesso, dalla ricerca compulsiva del sé attraverso immagini specchio: il profilo Instagram non è quello che sei, ma ciò che vuoi mostrare di essere agli altri. Tutto ciò genera quel senso di alienazione, quella sensazione di voler essere tutto e niente.
Chi sono io? Cosa voglio fare? Quali sono le mie aspirazioni? Perché sto soffrendo? La chiusura in se stessi deriva proprio da tutto ciò, da un'insicurezza di fondo sprigionata dalla vita online che si riversa nelle relazioni umane offline, l'incapacità di relazionarsi con gli altri, e soprattutto di fare i conti con le proprie emozioni ci rende frammenti isolati, incompresi, autistici. Se non abbiamo attenzione noi per noi stessi? Chi dovrebbe averla? Se non stiamo bene noi, nel nostro corpo, nel nostro io, come potremmo mai creare una relazione solida per star bene anche con gli altri?
Di Claudia Manildo
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